Riforma del processo, una nota di commento
Note sulla Riforma del Processo Civile
Il mondo della giustizia ha accolto con interesse la riforma del Processo civile, alla quale ha partecipato fornendo il proprio contributo di idee e portando ai tavoli i contenuti delle mozioni approvate nei congressi forensi, pur ritenendo tale riforma non essere la principale soluzione per i problemi che affliggono la giustizia nel settore civile.
Il decreto-legislativo n. 149/2022 porta con sé alcuni difetti della legge-delega e in qualche aspetto se ne discosta, generando dubbi di legittimità costituzionale delle norme delegate.
Ciò premesso, l’Avvocatura è ben consapevole della necessità di approvare le riforma processuali per gli impegni presi nei confronti dell’Unione Europea e apprezza la finalità, indicata nella stessa relazione illustrativa di accompagnamento, di ridurre la durata e i tempi del processo, perseguendo “i tre obiettivi della semplificazione, della speditezza e della razionalizzazione enunciati nell’incipit della delega”, senza rinunciare al valore “dell’effettività della tutela giurisdizionale, che rappresenta una sorta di unitaria “stella polare” di riferimento nel sistema della giustizia civile”.
Va ribadito però che le criticità del sistema giustizia non possono essere risolte intervenendo solo sulle norme processuali, atteso che le modifiche e le novità eventualmente adottate richiederanno tempo per essere assorbite e rischiano di creare confusione e dubbi interpretativi e conseguente allungamento dei tempi del processo, senza considerare l’inevitabile contenzioso che nascerà per l’interpretazione giurisprudenziale delle questioni preliminari e delle nuove norme.
La vera riforma consiste nell’incremento delle risorse umane (magistrati e personale di cancelleria) e incidendo sulla organizzazione del lavoro negli uffici giudiziari, sfruttando le risorse previste dal P.N.R.R. Come chiaramente scritto anche negli atti della Commissione Luiso, non si può pensare di ridurre i tempi del processo senza adeguare la pianta organica di magistrati e cancellieri e colmare le carenze diffuse sul territorio. Premessa l’attenta verifica della produttività dei singoli, ogni Giudice, per aver la possibilità di approfondire e maturare una “giusta decisione”, deve avere un carico di lavoro adeguato. E’ dunque necessaria una “diversa gestione” degli uffici giudiziari, con una più razionale distribuzione dei carichi di lavoro e l’ottimizzazione dell’Ufficio del processo.
Criticità
Vanno dunque rappresentate le principali criticità che destano preoccupazione e richiedono interventi immediati, già in fase di attuazione e correzione del decreto legislativo n. 149/2022, con riserva di integrazioni anche all’esito delle interlocuzioni, in corso con gli ordini territoriali e le associazioni forensi maggiormente rappresentative.
Diversi profili della riforma sollevano, infatti, dubbi e perplessità, meritano approfondimenti e necessitano di una revisione previa concertazione fra gli attori del processo, per assicurare la valorizzazione dei principi di concentrazione, effettività della tutela dei diritti e ragionevole durata del processo, utilizzando le innovazioni anche tecnologiche che la crisi sanitaria ha consentito di conoscere ed apprezzare, ma tutto ciò senza comprimere il diritto di difesa e il contraddittorio.
Destano preoccupazione soprattutto:
– l’aumento complessivo di costi ed oneri a carico del cittadino per l’accesso alla Giustizia;
– l’introduzione di pesanti sanzioni pecuniarie e processuali, soprattutto quelle che prevedono il pagamento a favore della cassa delle ammende, in caso di responsabilità aggravata per lite temeraria ex art. 96 c.p.c. (4° comma) o di mancata ottemperanza agli ordini di esibizione o di ispezione, oppure in sede di appello nell’ipotesi di rigetto delle istanze di sospensione della esecuzione della sentenza impugnata, con palesi intendimenti punitivi e intimidatori nei confronti del cittadino che si rivolge al giudice per la tutela dei propri diritti;
– la compressione degli spazi e dei tempi della difesa: previsione assolutamente inutile, essendo noto che non sono questi a rallentare il processo, quanto la distanza temporale che intercorre fra un’udienza e l’altra e i numerosi rinvii, spesso non giustificati dalle esigenze delle parti ma lasciati alla discrezionalità dei giudici; in tale ambito, la nuova fase introduttiva del giudizio, pur apprezzabile negli intenti, anticipando la definizione del thema decidendum e del thema probandum alla fase anteriore all’udienza di prima comparizione, comprime chiaramente l’effettività del diritto di difesa, stante la previsione di termini eccessivamente ristretti per il deposito delle memorie difensive, senza tener conto della necessità di consultazione con il cliente e la ricerca di mezzi di prova a seguito delle domande della controparte. Per tale ragione è necessario prevedere una estensione dei termini difensivi (anche attraverso un aumento del termine minimo di comparizione, in considerazione della facoltà del giudice di spostare la prima udienza di 45 giorni) e occorre introdurre dei meccanismi che consentano di porre rimedio alla rigidità dei termini preclusivi e alle conseguenze del decorso del termine, prevedendo possibili forme di recupero (in tal senso dispone l’art. 101 c.p.c., con formulazione non sufficientemente chiara e che dovrebbe avere un applicazione generalizzata). E’ evidente, comunque, che la previsione di una prima udienza così densa potrà avere successo solo se il giudice incaricato arrivi a questa udienza con tutta la conoscenza della lite necessaria ad adottare le decisioni fondamentali per il giudizio e per l’esperimento di un efficace tentativo di conciliazione (come nel rito del lavoro). In tale ottica, le parti della riforma che restringono eccessivamente i tempi a disposizione delle parti e dei loro difensori, la cui violazione comporta decadenze e preclusioni processuali, vanno ridotte a quanto strettamente necessario per la celerità del giudizio, con la contemporanea introduzione di ipotesi di sanatoria;
– l’ampliamento di competenze del Giudice di Pace: gli Uffici del Giudice di Pace scontano gravi carenze organizzative che non garantiscono tempi adeguati e rispetto dei principi del giusto processo; non vi è stata, fino ad oggi, una adeguata selezione dei giudicanti; è mancata l’applicazione del processo telematico all’Ufficio del GdP, con aggravio di carichi di lavoro per le cancellerie già in sofferenza per croniche carenze di personale e organizzative. Vanno altresì ricordati i dubbi sollevati dalla Corte di Cassazione (ordinanza n. 21418/2018) sull’introduzione del giudizio con ricorso estremamente formalizzato, poco compatibile con l’esercizio della giurisdizione da parte di un giudice onorario;
– l’attribuzione al magistrato di eccessiva discrezionalità in ordine alle modalità di svolgimento del processo, con l’istituzionalizzazione della possibilità di trattazione da remoto (art. 127-bis) o in forma cartolare (127-ter) delle udienze civili, così sottraendo all’Avvocato la facoltà di scelta delle forme e dei modi della difesa e la possibilità di discussione del giudizio, anche nella fase decisoria, con evidente compromissione – di dubbia legittimità costituzionale – del principio dell’oralità e del contradditorio e anche e soprattutto del diritto di difesa e di replica alle deduzioni della controparte. La introduzione di simili formalità anche al rito del lavoro genera, poi, ulteriori difficoltà interpretative, sia in relazione alla loro effettiva applicabilità alla prima udienza (l’art. 420 c.p.c. richiede infatti la presenza delle parti e la partecipazione personale delle parti è funzionale al tentativo di conciliazione e all’interrogatorio libero), sia con riferimento ai termini di costituzione del convenuto sino a 10 giorni prima dell’udienza. La portata e l’ambito di applicazione di queste norme al rito del lavoro vanno comunque chiarite e sollevano forti dubbi di legittimità costituzionale, potendosi ipotizzare che la causa venga trattenuta in decisione senza che le parti abbiano mai potuto conferire con il giudice;
– l’introduzione, con dichiarato scopo deflattivo, della sanzione di inammissibilità collegata ai requisiti di forma degli atti e del principio di chiarezza e sinteticità degli scritti, poi, palesemente viola il principio di libertà di forme di cui all’art. 121 c.p.c. (che trova fondamento costituzionale nell’art. 24 Cost.). Tale principio può rivestire, al più, un valore meramente orientativo e non può costituire obbligo di natura cogente. In particolare, è necessario escludere espressamente la previsione dell’imposizione di limiti dimensionali degli atti di parte. Timori ancora maggiori desta la previsione che l’obbligo di chiarezza e sinteticità degli atti divenga, in sede di appello o ricorso per cassazione, un requisito di ammissibilità della impugnazione, il che si tradurrebbe in un ennesimo filtro “occulto” a danno del diritto delle parti ad avere giustizia. In tale ambito si condividono le preoccupazioni e le perplessità della dottrina sull’introduzione di schemi informatici e “modelli di atti da adottare” per la redazione degli atti giudiziari (art. 46 disp. att. c.p.c.), con la strutturazione dei campi necessari per l’inserimento di dati nei registri del processo e sulle possibili finalità non solo statistiche quanto anticipatorie di esperimenti e di introduzione di sistemi di gestione automatica della lite, che possano prescindere dalla valutazione del giudice. Si ritiene che la relativa norma debba essere eliminata o, comunque, che l’utilizzo di tali schemi non debba costituire un obbligo per le parti con correlate sanzioni processuali o economiche;
– le limitazioni alla libertà di impugnazione, espressione del diritto della parte che si rivolge al Giudice ad avere una pronuncia di merito di secondo grado e un giudizio di legittimità che possano costituire una verifica della correttezza del procedimento seguito e della decisione emessa, ivi compresa la adeguata motivazione della scelta e dell’iter tecnico – logico – giuridico compiuti dal Giudice. L’introduzione di molteplici sanzioni collegate a pronunce di inammissibilità rappresenta la evidente volontà di disincentivare la proposizione delle impugnazioni, pena la comminazione di sanzioni dal sapore “minatorio” nei confronti non solo delle parti ma anche (il che è inammissibile) dei loro difensori, per aver “osato” chiedere il riesame della decisione di primo grado. Sebbene nel giudizio di appello venga formalmente eliminato il “filtro” ex art. 348-bis c.p.c., viene però attribuito un potere eccessivo al Consigliere istruttore, il quale potrà sollecitare pronunce di inammissibilità con effetti similari alla norma eliminata e conseguenti minori tutele per l’appellante;
– nel giudizio di cassazione, che ha visto già fortemente limitato l’accesso nel corso degli anni più recenti al fine di privilegiare la funzione nomofilattica e non già quella di controllo di legalità e tutela del cittadino da decisioni errate decidendo sulla correttezza dei giudizi di merito (v. art. 111 Cost.), desta ora forte preoccupazione e contrarietà la novità introdotta nell’art. 380 bis c.p.c. con il c.d. “procedimento accelerato”, e la previsione che il Consigliere delegato (che diventa, quindi, una sorta di giudice monocratico di cassazione) possa ora, valutata l’esistenza di profili di inammissibilità o manifesta infondatezza, “sollecitare” la rinuncia al ricorso e, in caso di mancata adesione e richiesta di decisione collegiale, divenuta a quel punto temeraria, far comminare dal Collegio non solo una condanna per responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96, terzo e quarto comma c.p.c. (art. 380 bis, 3° comma), ma anche il pagamento del contributo in misura raddoppiata (ai sensi dell’art. 13 D.p.r. n. 115/2002). Il tutto con l’aggiunta della previsione della necessità di sottoscrizione dell’istanza da parte di difensore munito di una “nuova” procura speciale (art. 380 bis 2° comma). Fra l’altro, la previsione di una seconda procura speciale non trova alcuna ragione logica (peraltro con qualche difficoltà interpretativa con riferimento all’art. 83 c.p.c. che non contempla l’istanza di decisione) se non quella di aggravare il lavoro dell’avvocato e manifestare un’inaccettabile sfiducia verso la classe forense, che sembra dover dimostrare con un nuovo conferimento di incarico di aver informato il proprio cliente della proposta di definizione e, quindi, di non aver violato uno specifico obbligo deontologico. E nell’ambito delle impugnazioni andrebbe chiarito che la sanzione del versamento del contributo unificato (c. d. “raddoppio”) e del pagamento alla cassa delle ammende non può essere automatica, ma va sempre valutata dal giudice anche in relazione alla questione controversa e all’andamento del giudizio, come avviene per la regolazione delle spese processuali. Considerata inoltre la funzione sanzionatoria e, quindi, non meramente processuale, ne andrebbe comunque esclusa l’applicazione ai ricorsi notificati prima dell’entrata in vigore della riforma;
– sebbene elementi di novità positivi siano stati individuati nelle modifiche del processo esecutivo, con il riconoscimento del ruolo dell’avvocato, la previsione della vendita diretta e l’accelerazione delle procedure, si rende però necessario introdurre termini perentori e certi per le risposte degli uffici alle istanze ex artt. 492-bis c.p.c. e 155-quater disp. att. c.p.c. Apprezzata anche l’abolizione della formula esecutiva e l’istituzione, presso il Ministero della giustizia, di una banca dati relativa alle aste giudiziarie, ma vanno segnalate alcune richieste di modifica sulla disposizione di cui all’art. 543 c.p.c., che necessita di una correzione nella parte in cui ha imposto l’onere a carico del creditore procedente di notificare l’avvenuta iscrizione a ruolo del pignoramento, con indicazione del numero di ruolo della procedura, al terzo pignorato e al debitore entro la data dell’udienza di comparizione indicata nell’atto di pignoramento, nonché il deposito dell’avviso nel fascicolo telematico dell’esecuzione, pena l’inefficacia del pignoramento. Va posta l’attenzione sulla particolarità del termine, ancorato alla data di udienza indicata nell’atto di pignoramento, che, nella pratica, può mettere il creditore in condizioni di rischiare l’inefficacia dell’esecuzione. La norma dovrebbe essere modificata, eliminando la previsione di inefficacia dell’esecuzione per l’omessa notifica prima della data fissata nell’atto di pignoramento, con conseguente remissione in termini del creditore procedente, che merita maggiore tutela. Questa norma ha già provocato problematiche interpretative a causa di un’improvvida nota del Ministero, non preventivamente condivisa con l’avvocatura, sull’individuazione del soggetto abilitato alla notifica e ha reso necessari diversi interventi dei Consigli degli Ordini territoriali e dei Tribunali per chiarire che anche il legale può notificare l’avviso previsto dalla norma;
– la previsione di cui all’art. 101 c.p.c., clausola di salvaguardia del sistema e possibile sanatoria, sebbene apprezzabile, in quanto ribadisce il dovere del giudice di assicurare il rispetto del contraddittorio, deve trovare una collocazione migliore così da avere applicazione più certa e generalizzata.